lunedì 12 novembre 2007

Una domenica di ordinaria follia

"L’agente della polizia stradale che ha ucciso Gabriele Sandri non si è accorto della rissa. Nemmeno ha intuito che, nell’area di servizio Badia al Pino lungo l’A1, due piccoli gruppi di juventini e laziali se le erano appena date di santa ragione. L’agente è stato messo sul chi vive dal parapiglia. Era lontano, dall’altra parte della carreggiata. C’è chi dice duecento metri, chi cento, in linea d’aria. Ha sentito urla e grida. Ha visto un fuggi fuggi e un’auto che velocemente – o così gli è parso – si allontanava dall’area di servizio. Ha pensato a una rapina al benzinaio. Ha azionato la sirena. L’auto non si è fermata. Ha sparato. Ha ucciso.”

Questa la ricostruzione, secondo il quotidiano La Repubblica , della triste vicenda della morte di Gabriele Sandri, il giovane tifoso della Lazio al seguito dei propri beniamini, ucciso da un colpo d’arma da fuoco da un poliziotto della stradale in un autogrill nei pressi di Arezzo. Se sono buone le fonti de La Repubblica e quindi se è vero il testo sopra citato, la tragedia di ieri, come ha scritto Giuseppe D’Avanzo, “poteva non avere come canovaccio principale la violenza che affligge il mondo del calcio ma, più coerentemente, il caso la probabilità, l’errore”. Ho pensato molto, tra ieri e oggi, se scrivere della vicenda di ieri. Poi mi sono deciso. Perché se, come ha sostenuto D’Avanzo, l’omicidio di Sandri non riguarda il mondo del calcio tout court, i successivi fatti di cronaca, lo scoppio di disordini generalizzati in tutta la penisola (con protagonisti da una parte le forze dell’ordine e dall’altro gli ultras), purtroppo lo sono: non è la prima volta che accade, speriamo che sia l’ultima.

Forze di polizia vs ultras
Mentre nei pressi dell’autogrill di Badia al Pino un colpo d’arma da fuoco poneva fine alla vita di Gabriele “Gabbo” Sandri, in tutta Italia s’innescava una spirale di violenza: sospese le partite Atalanta-Milan dopo 7’ e Taranto-Massese dopo 13’ per le intemperanze dei propri tifosi; caserme della polizia assaltate a Milano e Roma da bande di ultrà alleate in una perversa caccia al poliziotto; e così via, in una domenica di ordinaria follia. Che fa riemergere prepotentemente la questione, irrisolta, tra ultras e forze di polizia. “Tutte le tifoserie unite contro gli sbirri, non ci fermerà più nessuno”, “10, 100, 1000 Raciti”: sono solo alcune delle minacce di alcuni ultrà che si possono trovare sul web, mentre sugli stessi siti c’è in generale una tendenza a “sacralizzare” la morte di Sandri, come se fosse un compagno che ha perso la vita in battaglia (forse il giovane era invece solo un simpatizzante di una squadra di calcio, come in Italia siamo un po’ tutti, e che amava fare con gli amici una scampagnata, un pranzo, e poi vedere la partita e tornarsene tranquillamente a casa). Una santificazione simile, anche se con alcune differenze sostanziali, a quella di Raciti: per questo non è un caso se uno degli slogan di un gruppo di ultras della Lazio è stato proprio contro il poliziotto ucciso a Catania (mi riferisco al vergognoso 10,100,1000 Raciti). “Come se Raciti e Sandri- ha scritto D’Avanzo- fossero i caduti su fronti opposti di una allucinata guerra, dichiarata tanto tempo fa e ancora in corso, domenica dopo domenica, scontro dopo scontro, carica dopo carica”.
Ritengo che questa forma di terrore, o orrore, domenicale, debba cessare. L'odio degli ultrà verso la polizia non è facilmente comprensibile. Sono stati scritti alcuni saggi sul tema (ne proporrò una lista prima o poi), ma in altri paesi la letteratura è ben più vasta (come in Inghilterra dove il problema Hooligans sembra sia stato risolto). In sostanza l'odio verso le forze dell'ordine è presente nella mentalità ultras fin dalle origini, in quegli Anni 70 (c'è però chi sostiene che le radici dell'odio siano molto più antiche), quando la protesta sociale e la violenza di un mondo, quello giovanile, non accettava più l’autorità dei propri padri (il padre, l’insegnante, il tutore dell’ordine, il politico, ecc.). Un tifo organizzato con una forte connotazione politica estrema, sia di destra (che oggi sono la maggior parte) che di sinistra. Ha scritto in proposito John Foot, insegnante di Storia presso il Dipartimento di italiano dell’University College di Londra, nonché grande appassionato di Calcio (italiano), sul suo libro “Calcio: storia dello sport che ha fatto l’Italia” (2007, ed. Rizzoli pag. 355) :
“Tutti i gruppi ultrà – di destra o di sinistra – si organizzano attraverso forti gerarchie, vivendo quasi come unità militari, in particolare durante le partite. I loro nemici erano gli altri tifosi e i poliziotti, descritti spesso come ‘assassini’. Uno striscione esposto dagli ultrà del Cosenza riassunse questa filosofia: ‘Basta con la violenza. Via la polizia dagli stadi’. Come tutte le tribù, gli ultrà avevano i loro trofei, miti eroici o martiri. Gli aneddoti, le vicende – spesso tramandati oralmente o raccontati su fanzine o su siti internet – di solito riguardavano scontri con altre tifoserie. E visto lo schieramento di forze di polizia presenti allo stadio, le risse avvenivano altrove: per strada, alle stazioni e soprattutto presso gli autogrill, i veri campi di battaglia degli ultrà negli Anni 80 e 90. I miti ultrà esaltavano il coraggio e stigmatizzavano la codardia. Molti canti accusavano infatti i tifosi rivali di sfuggire al confronto fisico”.
Secondo l’esimio professore il tifo degli ultras può inoltre essere paragonato ad un credo religioso. “Sia i tifosi che i fedeli- ha scritto Foot- partecipano a riti fisici e ideologici, e vestono in modo preciso, spesso immutabile. Questi rituali sono anche verbali; si pensi solo alla ripetizione di determinati canti, sotto la guida di leader carismatici. I tifosi si ritengono parte di una ‘fede’. È qualcosa cui non possono rinunciare, neanche volendo, e che li accompagnerà fino alla tomba, talvolta oltre(...). Questi riti sono più importanti della partita stessa. Nella loro visione del mondo la storia è stata abolita, rimpiazzata da una serie di miti e cerimonie autoreferenziali”. Talvolta il loro modo di operare produce elementi positivi nel folklore calcistico, come ad esempio le coreografie (peraltro baluardo della retorica politica di Mussolini). In generale sono delle organizzazioni paramilitari che cercano consenso esterno e interno. E gli scontri con le "guardie" sono parte integrante della loro ideologia. Come ha scritto Edmondo Berselli in La Repubblica del 24.3.2004, gli scontri con la polizia diventano “un momento simbolico potentissimo, modulabile dal minimo coro: ‘mestiere di merda/carabiniere’, al massimo, cioè l’attacco, gli incendi, i vandalismi, il conflitto aperto con tecniche di guerriglia urbana”.
Gli ultrà, con la loro "politica", hanno dimostrato spesso la loro forza, almeno all'interno di uno stadio. Come nel derby di Roma del 2004, quando si diffuse la falsa notizia dell'uccisione di un bambino da parte della polizia. Ero presente alla cosa e mi ricordo gli appelli alla calma dell'allora prefetto di Roma Achille Serra, sostenuto da un alcuni rappresentanti di Roma e Lazio. Ricordo che il prefetto aveva detto che non era stato ucciso nessuno. Ma alla fine prevalse la linea degli ultras che invocavano la sospensione della partita (con i successivi scontri con la polizia nei pressi del foro italico), nonostante la notizia era, come il prefetto aveva esplicitamente sostenuto, falsa. La gente, i giocatori in campo, forse lo stesso presidente di Lega, avevano creduto agli ultrà e non allo Stato.

Per concludere torniamo alla vicenda dell'autogrill di ieri. D'Avanzo nel suo articolo alla Repubblica, sempre se la ricostruzione fatta dal quotidiano sia vera, ha scritto un duro atto d'accusa verso la polizia per come ha gestito la diffusione delle informazioni date alla stampa. "Consapevole che non di calcio si trattava- ha scritto D'Avanzo-, ma del tragico deficit professionale di un agente lungo un’autostrada, il Viminale non ha ritenuto di dover fermare le partite muovendo l’ennesimo passo falso di un’infelice domenica. Il racconto contraffatto è stato accreditato di ora in ora senza correzioni. Rilanciato e amplificato dai media, ha acceso come una fiamma in quella polveriera che sono i rapporti tra le forze dell’ordine e l’area più violenta degli stadi, prima e soprattutto dopo la morte di Filippo Raciti a Catania. L’illogica catena di errori, malintesi, confusioni, silenzio e furbe manipolazioni – non degne di un governo trasparente, non coerenti con una polizia cristallina – ha trasformato la morte di Sandri in altro. L’ha declinata come ‘morte di calcio’. È diventata una ‘chiamata’ per l’orgoglio tribale degli ultras che, incapaci di esaurire la loro identità in una passione, a vivere il calcio come una buona, adrenalinica emozione, hanno bisogno solo di odiare, di posare a guerrieri, di mimare la partita come protesta e battaglia”.
La ricostruzione di Repubblica è in effetti molto diversa da quella della Polizia di Stato. Nel comunicato emesso dall'ufficio stampa del Viminale infatti si parla di una baruffa, scoppiata verso le 9, tra ultrà e sedata da un poliziotto che ha esploso due colpi in aria. Nel mezzo un buco informativo (come insegnano negli ufficio stampa: In una situazione di crisi omettete le parti spinose), poi si parla del ragazzo deceduto. Una strategia che non ha soddisfatto il desiderio di trasparenza che il caso obbligava (perché la polizia sapeva già alle 12 - l'ora in cui è stato emesso il comunicato ufficiale - tutta la storia, visto che aveva già dalla mattina a disposizione le testimonianze dei presenti e i filmati della telecamera dell’area di servizio). E forse associando la morte di Gabriele agli 'ultrà che si pesta all'autogrill', ha innescato la violenza per le strade e negli stadi. Una conseguenza prevedibile, perché questi gruppi sono sempre pronti a sfruttare ogni occasione buona per innescare la violenza contro la polizia. Una violenza che dà anche molta visibilità. E che porta a strumentalizzare anche la morte di uno che col mondo ultrà non c'entra niente, ucciso (forse) per errore da un gesto folle di un agente di polizia. Che forse pensava di essere Bruce Willis e non un degno rappresentante della divisa che indossa.

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