venerdì 23 novembre 2007

Tifare non è reato

In un'Europa dove non esistono frontiere interne e dove è libera la circolazione di uomini e merci, i tifosi italiani appaiono come bestie in gabbia. Tutti, senza distinguo. La questione qui non è quella di suddividere i buoni dai cattivi come si faceva alle scuole elementari o medie, ma attiene piuttosto al tema annoso della giustizia (penale) e alla sua attuazione in un Paese che si definisce democratico. Sul Corriere della Sera di martedì 20 novembre, Alessandro Pasini si è domandato se "è possibile ottenere un Sistema che distingua le curve, punisca solo coloro che dentro lo stadio, identificati pure dai satelliti, i disastri li fanno davvero e lasci alla maggioranza la libertà di andare a tifare dove vuole?". Il quesito di Pasini, lungi dall'essere retorica, pone una domanda che si connette all'idea di democrazia. E allora mi chiedo: Che cosa ha di democratico uno Stato che tratta tutti i tifosi come se fossero potenziali criminali? I tifosi, prima di essere appassionati della loro squadra, non sono cittadini con doveri e diritti? Oppure l'Italia non è più uno Stato di diritto?
Eppure per far funzionare il Sistema basterebbe far pagare chi sbaglia (in modo proporzionale al reato commesso); chi invece si comporta in modo corretto dovrebbe vedere i propri diritti rispettati. Invece no. Nella situazione attuale non esistono distinguo. Il "peccato" dell'essere tifoso è omologato al reato dell'ultras che devasta. Tutto questo perché? Per questioni di sicurezza, dimenticando che proprio in nome di questa (come nel caso della difesa nazionale), sono stati perpetrati alcuni tra i danni peggiori alla democrazia. Una sicurezza poi richiamata e innalzata a valore solo nei casi di emergenza estrema. Accade così nel calcio, ma accade così in tutte le vicende italiane (dalle "stragi del sabato sera" fino alla questione dei "romeni"). Eppure l'emergenza, che arriva alla gente da fatti contingenti, in realtà nasce da qualcosa di più profondo. Qualcosa a cui non si è messo un freno prima e che ora esplode in tutta la sua ferocia. Come la cronaca degli scontri tra ultrà e polizia di questi giorni, che ha solo reso manifesta una violenza che da Raciti era rimasta tra le quinte. E che lì dietro ha tramato, aspettando solo il momento giusto per esplodere. Pensare ora di risolvere tutto associando il "peccato" di essere tifosi con i reati commessi da criminali appartenenti troppo spesso a bande ultrà, non è parte di uno Stato civile. Inoltre chiudere le curve, inibire a chi ne ha voglia di andare in trasferta, possono essere strumenti utili sul momento (anche se la cosa va dimostrata), ma non risolvono nulla e non aiutano il calcio ad uscire dalla fossa in cui si trova. C'è bisogno invece di una strategia a lungo termine, fatta di buon senso e volontà. E che discrimini chi compie reati da chi non li fa. Perché tifare può essere un "peccato" ma non è reato.

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