lunedì 18 agosto 2008

Da "La Stampa", il coccodrillo di Franco Sensi firmato Roberto Beccantini

Figlio del Testaccio diventato presidente giallorosso
di Roberto Beccantini

Franco Sensi è stato, per oltre un decennio, il cuore, il salvadanaio e il megafono della Roma. Protagonista pittoresco ed eccessivo, contro mano e contro molti, «anti» per indole, i poteri forti di Juventus e Milan come bersaglio e ossessione. Nel maggio 1993, in compagnia del costruttore Pietro Mezzaroma, salvò la società dalle macerie della ruspa Ciarrapico, intimo di Andreotti e da costui «suggerito» alla morte di Dino Viola. Nel maggio 2001, le ha consegnato il 3° scudetto della storia. Sono questi i confini di un regno che i debiti accumulati per far fronte alla temerarietà del disegno hanno reso vacillante e ambiguo.

Figlio di Silvio, che della Roma era stato uno dei fondatori e del mitico Testaccio il più accanito «muratore», non poteva non diventare romanista. Lo diventò a modo suo, coinvolgendo la famiglia e l’impero, petrolio, alberghi, giornali, aeroporti, alimentari. Tifoso, vice presidente negli Anni Sessanta e poi dimissionario quando Franco Evangelisti invase il club; ancora tifoso e, l’8 novembre 1993, presidente. Obiettivi: risanare i conti, cancellare quell’idea di cronica precarietà che soltanto Viola aveva ribaltato, ottenere il rispetto dell’Europa. Ci è riuscito, anche se a carissimo prezzo.

Non si può capire Sensi senza collocarlo nel «presepe» che trovò, la Lazio del rampante Cragnotti, il Milan di Berlusconi capo del governo, la Juventus famelica di Giraudo, Moggi e Bettega, precettati da Umberto Agnelli dopo il crepuscolo del Boniperti-bis. L’Inter non è ancora di Massimo Moratti: lo sarà presto (febbraio ‘95). Gli scenari sono questi. Sensi li cavalca con la furia di Don Chisciotte. Difende Totti dai progetti blasfemi di Carlos Bianchi, che intendeva girarlo alla Samp come se fosse un giocatorino qualunque, sogna l’utopia di una «Roma romanista», lui al vertice e il trasteverino Mazzone in panchina: non durerà, il sor Magara. Curiosamente, il suo «papato» comincia con un Moggi, Luciano, messo alle porte, e finisce con un altro Moggi, Alessandro, libero di circolare per Trigoria. Il padre, consigliere alle sue dirette dipendenze, si era dato alla Juve sfilandogli da sotto il naso Ferrara e Paulo Sousa. Il figlio ha curato il passaggio di Del Neri, allenatore in quota Gea, fino all’epoca dell’operazione una sorta di perversa e scellerata Spectre.

Sensi titilla l’orgoglio popolare e va all’assalto del Palazzo. Non vuole cambiarlo, vuole possederlo. Vuole, soprattutto, far uscire Galliani e Giraudo. Si innamora di Zeman, salvo scaricarlo perché inviso al Regime: ha detto che il calcio deve uscire dalla farmacie e dalle banche, e qualcuno, per questo, gliel’avrebbe giurata.

Se Cragnotti è un acrobata della finanza che finirà in mutande dopo aver vestito e spogliato la sua bella, Sensi si ritaglia i panni di Robin Hood, anche se quasi mai toglie per dare ai poveri. Si allea con Cecchi Gori sul fronte tv, sfida il rampollo di Tanzi sul versante Lega, sfodera fior di avvocati pur di ottenere la vendita soggettiva dei diritti criptati: gliela garantiranno con tanto di legge (del centro-sinistra), ma sarà un clamoroso autogol. Recluta Fabio Capello, lui sì amico degli amici e, dunque, spendibile nei corridoi in cui, secondo i dietrologi, si fanno e si disfano le classifiche. Il Natale del ‘99 ha la pensata di regalare un pacco di Rolex ai designatori Bergamo e Pairetto, e agli arbitri. Scoppia uno scandalo, resta il messaggio, chiaro e irrevocabile: cara Juve, caro Milan, adesso sapete con chi avete a che fare.

Il titolo laziale del 2000, che la curva Sud vive come un’onta, dedicando a Sensi cori e striscioni irridenti, è la miccia che fa esplodere i dubbi estremi. Nasce, così, una delle Rome più forti di sempre, quotata in Borsa come i «cugini», la Roma di Batistuta, pagato 70 miliardi di lire alla Fiorentina, di Totti e Montella, Samuel ed Emerson: 75 punti (record, a quei tempi) e scudetto, 18 anni dopo l’ultimo. la Juve 2ª, il Milan addirittura 6°. Ha fatto scalpore, alla vigilia del clou Juve-Roma, la delibera con la quale la corte federale aveva «liberato» gli extracomunitari, un atto tradotto in un omaggio a Sensi e in uno sgarbo a Giraudo, visti i Nakata e gli Assunçao in ballo. C’è chi parla di nuovo polo, alternativo a Milano e Torino. Biscardi ci inzuppa, goloso, il processo. Le radio romane alimentano la sindrome dell’assedio. Sensi vigila sospettoso e agita la clava. È il periodo in cui sono tutti «italiani», da Bartelt a Cafu per finire a Emerson, che il grande capo vorrebbe trasformare niente meno che in alpino. Passaportopoli lo colpisce ma non lo affonda, anzi. La Roma rimane competitiva e butta via un altro scudetto, quello del 2002, per aver pareggiato in casa di un Venezia già retrocesso. Va peggio l’anno seguente, con un 8° posto scandito da burrasche dialettiche e risse quasi fisiche, Sensi contro gli arbitri («associazione a delinquere»), Sensi costretto a digerire l’elezione di Galliani, Sensi e Giraudo che si dicono di tutto, la moglie, Maria, bacchettata dalla «Padania» (avesse detto) per un sit-in di gruppo, con il fior fiore degli ultrà, davanti alla sede della Figc.

Piano piano, il giocattolo si rompe. E dall’Europa arrivano solo mortificazioni: il western con il Galatasaray, Roma-Dinamo Kiev sospesa da Frisk, centrato in volto dalla moneta di un anonimo balilla; per tacere del derby spezzato, una sera di marzo. Lo scudetto ha lasciato voragini, dilatate dall’acquisto di Cassano a un prezzo non proprio di favore: 60 miliardi al Bari. Pur di sbarazzarsene, verrà in pratica «regalato» al Real. La salute non è più quella di una volta. Fidejussioni taroccate e doping amministrativo gli rigano la corazza e lo obbligano a sacrificare mezzo patrimonio. La Finanza ne esplora, implacabile, i bilanci. «Non ce la faccio più», sospirerà all’indomani del fallimento della trattativa con i russi della Nafta. Lo soccorrono le banche (su tutte, Capitalia di Cesare Geronzi), e, paradossalmente ma non troppo, i nemici di sempre, Sky e Mediaset. Il distacco con Capello è traumatico, aggravato dalla destinazione juventina. L’affare Emerson contribuisce a siglare un armistizio con l’improvvisamente «amico» Antonio (Giraudo). Il vecchio leone scende a patti anche con Galliani, appoggiandone la rielezione in Lega. Moggi (Luciano) non è più un traditore. I tifosi s’interrogano smarriti: vende, non vende?

Rosella, la figlia, è promossa amministratore delegato e portavoce della società. Ha il sorriso della madre e gli artigli del padre. Calciopoli spacca gli equilibri di potere. Le sentenze cancellano i «nemici giurati», Giraudo & Moggi, e ridimensionano il terzo, Galliani. Nasce la Roma di Luciano Spalletti, tottiana e divertente, seconda soltanto all’Inter, la nuova tiranna. Piange di commozione, il presidente, quando la squadra batte la Lazio e fissa a undici il record delle vittorie consecutive in campionato, poi sbranato dall’Inter (17).

Ci mancherà, Franco Sensi. Lascia una Roma che ha imparato a camminare da sola. Lascia impronte indelebili e ombre non meno profonde, come tutti coloro che si sono opposti a un regime sfruttandone le sue stesse complicità. È stato un presidente grande e scomodo, collerico e paterno. Un mecenate che, dietro, non aveva né gli Agnelli né Berlusconi e, per questo, si è bruciato dopo aver acceso e alimentato una fiamma che non scaldava i cuori giallorossi da troppe carestie, da troppi soprusi.

(Fonte: La Stampa)

1 commento:

Italo Mastrangeli ha detto...
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